Il Museo archeologico di Medma a Rosarno.

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Inaugurato nel 2014 – alla presenza dell’allora Assessore alla Cultura della Regione Calabria, Mario Caligiuri e di autorevoli esponenti del mondo accademico come la Dott.ssa Simonetta Bonomi, Soprintendente per i Beni Archeologici della Calabria; di Bruno Stelitano, poeta in lingua Grecanica del Prof. Ottavio Amaro, Pro-Rettore dell’Università “Mediterranea” di Reggio di Calabria e del prof. Salvatore Settis, insigne archeologo e storico dell’arte,  già Direttore della Scuola “Normale” di Pisa di cui oggi è professore Emerito – il Museo archeologico di Medma, è un prezioso presidio culturale di livello regionale e non solo.

Il museo si trova ovviamente a Rosarno – cittadina calabrese di circa quindicimila abitanti in provincia di Reggio Calabria, che sorge su un modesto plateau collinare, sulla sinistra del Fiume Mesima, nella parte settentrionale della Piana di Gioia Tauro, localmente nota come A Chjiana, ma che nel corso della storia è stata indicata con varie denominazioni:, Vallis Salinarum tra la fine del periodo bizantino e l’inizio di quello normanno, Piana di San Martino e San Giorgio in pieno Medioevo, sino all’attuale denominazione assunta a partire dal XIX secolo – in via Filippo di Medma, strada intitolata all’unico medmeo antico noto, discepolo di Socrate e poi allievo, amico e segretario personale di Platone.

Quello di Medma è un museo che va ad aggiungersi ai poco più di 70 riconducibili all’ambito tematico archeologico inserendosi fra i circa 290 presenti sul territorio regionale come risulta dal recente secondo Censimento dei Musei Calabresi disposto nel 2011 dall’Assessorato alla Cultura della Regione Calabria. Molti suoi reperti attualmente si trovano presso musei italiani ed esteri: Reggio Calabria, Siracusa, Vibo Valentia, Taranto, Rovereto, Napoli, New York, Londra, Parigi, Basilea, Ginevra, Bonn e Sidney.

I pezzi esposti nella struttura museale rosarnese sono, in gran parte, il frutto degli scavi compiuti nella stessa città della Piana, agli inizi del XX secolo, dal celebre archeologo roveretano Paolo Orsi (1859 – 1935), che con il suo lavoro, terminò gli scavi intrapresi nel corso dell’Ottocento per conto del conte vibonese Vito Capialbi, degli antiquari tedeschi Merz e Major stanziati a Taormina e del Vescovo di Mileto Monsignor Filippo Mincione. Orsi forte dei reperti trovati, stabilì con certezza topografica, nell’abitato moderno di Rosarno, sul modesto altopiano o terrazzo di Pian delle Vigne, la collocazione della subcolonia locrese sul Tirreno Μέδμα o Mesma, smentendo l’altra ipotesi ubicativa dell’epoca che la voleva qualche chilometro più a nord coincidente con la romana Nicotera, sul cui territorio invece, Strabone, nei pressi dell’abitato costiero di Nicotera marina, collocava il porto della stessa Μέδμα, chiamandolo Emporio, ipotesi questa ritenuta probabile dallo stesso Orsi come testimoniano un documento del 1928, scritto di suo pugno, sugli scavi effettuati presso la città vibonese qualche anno prima.

Gli altri reperti esposti, derivano invece in parte dalla donazione – fatta al Museo dagli eredi – della collezione del compianto maestro Giovanni Gangemi, al quale il Museo ha dedicato una delle sue sale, il quale fu appassionato cultore di storia patria e di archeologia e a cui, la Soprintendenza, proprio per l’impegno profuso nel raccogliere e conservare reperti occasionalmente rinvenuti sul territorio, volle assegnare il ruolo di Ispettore alle Antichità di Μέδμα.

Altri oggetti esposti, provengono invece da alcuni prestiti ricevuti dal Museo Archeologico Nazionale di Reggio di Calabria, oppure si tratta di manufatti rinvenuti in campagne di scavo successive a quelle dell’Orsi, eseguite da vari studiosi, anche stranieri, tanto nelle aree sacre sul terrazzo di Pian delle Vigne quanto nelle aree immediatamente limitrofe e in altre nuove aree di scavo che meglio definiscono l’originario impianto urbanistico, come la strada di circa 15 metri, lastricata con ciottoli, che scorre in senso est/ovest, risalente al V secolo a.C., al centro del reticolato urbano della polis, considerata la plateia maggiore della città.

Il nuovo Museo di Μέδμα, reca come logo una figura di testa femminile, statuetta fittile tipica della coroplastica medmea.

L’allestimento è stato curato da Silvana Iannelli e Claudio Sabbione, sotto la direzione scientifica di Simonetta Bonomi. La ricca pannellistica delle tre sale è stata invece curata dall’archeologa Roberta Schenal, collaboratrice esterna della Soprintendenza di Reggio Calabria, mentre i reperti tolti dalle decine di casse sigillate e restaurati a partire dal 2012 da un’equipe guidata dal restauratore Prof. Giuseppe Mantella

Tra gli oggetti che il visitatore potrà trovare, spiccano gli oltre 150 esemplari documentati di riproduzioni fittili di cavalli e di altro materiale ex-voto quali i grandi busti femminili, tipici delle maestranze locali, offerti dai medmei alle loro divinità; la bellissima Neck-Amphora (525-500 a.C.) a figure nere di produzione attica; la brocca (Oinochoe) a testa femminile di produzione attica (475-450 a.C.); l’arula in terracotta in cui è raffigurata una Sfinge alata con testa femminile; statuette fittili con figure recumbenti; la rara attestazione di gioielli, come l’anello in argento e la coppia di orecchini in oro, in uso quale corredo funerario anche nella madrepatria Locri; la serie di statuette in terracotta di Hermes kriophoros, portatore di ariete, tanto nella versione barbata che imberbe (500-450 a.C.); alcuni oggetti realizzati in pasta vitrea dalla luminosa policromia composti da pendenti e da unguentari per profumi, fra cui un Aryballos integro e degli Amphoriskos frammentati, rinvenuti in località Calderazzo e riconducibili per tipologia e fattura all’oggettistica di provenienza dall’universo fenicio.

Da rimarcare, infine, quale unicum sul piano artistico in tutta la Magna Grecia, e a testimonianza degli ottimi rapporti intercorrenti tra Medma e la capitale dell’Attica Atene, la rappresentazione in 5 arule di scene dedotte dalla tragedia ateniese, in particolare la famosa “Arula di Tiro”, altarino in terracotta in cui viene rappresentata una scena mitologica desunta da una tragedia di Sofocle andata perduta e rinvenuta dall’Orsi nel corredo funebre in uno dei ben 86 sepolcri della necropoli in contrada Carozzo-Nolio.

 

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