Quando a Nicotera c’era il rispetto per i defunti.

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La notizia del raid notturno al cimitero comunale che ha lasciato molti esterrefatti – e la dice lunga sul livello di civiltà che si respira in queste desolate contrade – oltre ad una riflessione sul generale livello di sicurezza del territorio mi ha fatto tornare in mente una lettura che avevo fatto tempo fa quando – immerso nel mio archivio di carte e documenti sulla affascinante storia di questo nostro paese – appresi da uno scritto di Mons. Vincenzo Brancia (1818-1896 – Vescovo di Ugento (Lecce), nobile figura di ecclesiastico, di scrittore e di umanista), alcune notizie sul culto dei defunti nella Nicotera del XIX secolo.

D’altronde fin dagli albori della storia, per l’uomo, il culto dei morti ha avuto un importanza che non è esagerato definire fondamentale, arrivando persino ad elaborare cerimoniali complessi, come si può ben capire dalle parole dello stesso Brancia che certo, resterebbe inorridito, di fronte a episodi come quello che si è consumato stanotte al cimitero comunale.

“Diversamente, secondo la diversità del ceto; si regolano le costumanze in caso di morte. Nella classe agiata, i parenti e gli amici della famiglia del defunto, debbono inviare nella mattina caffè rosolio, ovvero cioccolata; nel giorno (s’è di està) rinfreschi, e nella sera lauta cena. Quando una famiglia abbia lunga parentela e più amici, queste cortesie si affollano, e durano per più giorni, talvolta sino a dodici. Il feretro del galantuomo, nell’associarlo che fa il Capitolo e Clero della Cattedrale, vien sostenuto ai lati dagli artefici di Famiglia, ed è accompagnato da quattro nobili della città. Il cadavere pria di seppellirsi si avvolge in un copertino di seta bianca, e si ripone in una cassa guarnita pomposamente di velluto ornato di galloni di seta, ovvero di oro o di argento”.

“Nella morte delle persone del popolo, – continua il letterato – le donne si scapigliano, ed intorno la bara mandano urli da disperate, si strappano i capelli a ciocche, e li depositano sul cadavere dell’estinto. Dalla parte del capo dee situarsi la donna più prossima in parentela al defunto. Tra le donne circostanti, a quando a quando, una di esse prende a dire le lodi del defunto con una specie di nenia che nomano ripetitivamente, ed allora cessano le altre di urlare e piangere. Vi sono talune nel volgo riputatissime per tal mestiere, le quali non l’esercitano a pagamento, come in alcuni luoghi fanno le moderne prefiche, ma per amicizia, e per riguardo a coloro verso i quali si sentono obbligate.

Gli uomini poi, sia quale si voglia la stagione, anche nel sollione, indossano un cappotto di grosso panno di lana paesano detto Arbascio, e si tolgono dai piedi le scarpe, ritenendo le sole calze. Quando il defunto si crede che abbia dritto ad una certa aristocrazia plebea, cui danno il nome di jinea, i parenti non gli coprono la testa col lungo usuale berretto, ma lo lasciano a testa nuda, e gli mettono sui piedi un cappello di galantuomo, il più grande che possono rinvenire; e se sapeva leggere e scrivere, gli mettono di più fra le mani un libro; se pietoso, chiamato cresastico, gli legano fra le mani una corona del Rosario.

La donna del popolo di buona jinea si distingue dal vederla sul feretro con la testa coperta da un velo nero con fodera bianca, cosicchè chi è ignaro di questo costume potrebbe credere che fosse una monaca di clausura. Questo velo si conserva da alcune case di popolani, e se lo danno in prestito fra loro per quest’uso. Generalmente coprono la testa colla rete detta rizzuola, che sogliono viventi portare sotto la tovaglia; e la bara ornano di rami di arancio e di rosmarino.

Nei Funerali che si fanno in Chiesa, mentre i sacerdoti celebrano gli uffizi divini, una donna vestita a nero mantiene ai piedi ed alla testa della bara due bracierine sempre fumanti d’incenso. Il lutto nelle vesti nere dura tre anni. La vedova dell’uomo di basso ceto si distingue da un fazzoletto nero che porta sul petto; il che non si osserva nelle altre donne del parentado, ancorchè fossero figlie del defunto — Non è a dire quanto religiosamente pensi il popolo intorno ai sepolcri, ed agli onori da rendersi ai corpi morti: l’idea de’ moderni camposanti fa orrore ad una persona della plebe”.

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