Di Margherita Chiara Tedesco Immordino, Francesco Palladino Callaioli e Antonio Leonardo Montuoro.
Nota del prof. Mario Caligiuri.
Mi sono permesso di porre in evidenza ragioni tali da rendere ancor più significativa l’azione di Gratteri, specie in questi anni e ho così individuato delle peculiari virtù che in lui possono rintracciarsi: la coerenza tra pensiero e azione, che viene immediatamente percepita da chi lo ascolta o lo legge, nonché una conoscenza diretta e approfondita del fenomeno. L’alto Magistrato nasce infatti a Gerace, paese con forte infiltrazione mafiosa e sin da bambino si trova a giocare anche con coloro che da adulti sarebbero diventati ergastolaniChi meglio di lui può conoscere il modus operandi di un malavitoso, con i suoi punti deboli e le sue strategie, riuscendo persino a prevederle? In fin dei conti, non di rado si tratta di semplici “ladri di polli”, che sono diventati esponenti di un sistema criminale a diffusione mondiale.
I libri del dottor Gratteri non assurgono a mera cronaca di atti giudiziari, bensì rappresentano una pregevole analisi dei profili storici, culturali e antropologici, sottolineando come la ‘ndrangheta non sia ancorata al solo passato, ma anzi dimostrando come si sia evoluta e capillarmente ramificata nel presente, approfittando della globalizzazione, per espandere le proprie mire affaristiche nei vari Continenti. Nicola Gratteri, spinto dalla propria, cristallina onestà intellettuale, è fra i pochi a promuovere una lungimirante e radicale riforma del sistema giudiziario. Sue le parole: “se la gente non parla con noi significa che noi Magistrati non siamo credibili” e, non a caso, nelle proposte da lui avanzate nell’ apposito Comitato istituito dallo scorso Governo, ricorre l’opportunità di avvalersi dei processi telematici, così come vi si tracciano nuove regole sulla confisca dei Beni. Altra priorità a lui a cuore è una parallela riforma del sistema educativo, dalle scuole all’Università.
Klauss David, noto massmediologo, di recente ha pubblicato un articolo che mette brillantemente a fuoco il successo che Gratteri è capace puntualmente di riscuotere, oltre che dinanzi alle platee degli uditori, anche in televisione, dove ogni qualvolta egli appaia, immancabilmente si alza di un punto lo share degli ascolti, anche quando denunzia come negli sceneggiati tv e nei film, troppo spesso vi sia una pericolosa enfatizzazione che rischia di diventare emulazione. Per poter arrivare ai più, il tipo di linguaggio che Gratteri ha scelto di usare è schietto e diretto. Basti ricordare alcune delle sue fatiche editoriali, partendo dal 2007 con “Fratelli di sangue” e, nello stesso anno, ’ndrangheta e “le radici dell’odio”, dove la stessa viene definita “mala pianta”. Nel 2010 poi approfondisce ancora il tema della giustizia con “La giustizia è una cosa seria”. Nel 2011 affronta anche il rapporto della Chiesa con le Mafie, in un libro che ha fatto scalpore: “L’acqua santissima”.
Interessante è un’osservazione di Pietro Comito, esperto di cronaca nera e giudiziaria e tra i giornalisti calabresi più esposti nell’informazione sulla criminalità organizzata: “Gratteri ci riabilita davanti a noi stessi e al resto del mondo, non siamo più omertosi e non dobbiamo vergognarci di chi siamo e da dove veniamo, perché con lui si ribalta tutto”. Un invito per i cittadini a farsi protagonisti attivi di una rivoluzione civile “della speranza”, quotidiana, che potrà conseguirsi solo superando una radicata omertà e dal basso, orizzontalmente, cioè prendendo coscienza e coraggio per denunziare le prevaricazioni di una presenza che altrimenti continuerà a venir percepita come “invisibile e invincibile”. Ricordiamo infine che il procuratore Gratteri, per la sua innata dedizione e lo spiccato senso di dovere e dello stato, è costretto a vivere sotto scorta da oltre trent’anni. –
Nicola Gratteri, magistrato e saggista, è dal 2016 Procuratore della Repubblica di Catanzaro. Il 9 febbraio 2019 ha tenuto una lezione al Master in Intelligence, diretto dal prof. Mario Caligiuri, presso l’Unical (Università della Calabria). In quell’occasione il Procuratore ha parlato di Giustizia, storia delle mafie, contrasto al traffico internazionale di stupefacenti e necessità di riforme. Ascoltando le sue parole, arricchite da quella sottile ironia che lo caratterizza, non si può far a meno di sentirsi coinvolti in prima persona, venendo travolti da quella passione, che è espressione di un studio approfondito e di una lotta ardua ed instancabile contro le organizzazioni malavitose e il narcotraffico.
Senza la Giustizia noi non potremmo dire di vivere in democrazia, altrimenti avremmo la giungla, la legge del taglione. Anche se imperfetta, anche se perfettibile, noi non possiamo fare a meno della giustizia, che ci serve come l’aria che respiriamo. Si possono tuttavia rivolgere alcune critiche al sistema giudiziario. Nel mio ruolo di Procuratore, io le accetto, ma purtroppo ritengo che se noi nel 2019 stiamo ancora parlando di riadattamento delle mafie italiane nel mondo, è proprio per una serie di concause e quindi di corresponsabilità che perdurano da tempo. Possiamo solo discutere sulla ripartizione delle colpe, ma siamo tutti in effetti responsabili, a partire da noi magistrati -che abbiamo forse sottovalutato e non capito a fondo il fenomeno- passando per le Forze dell’Ordine, gli storici, i Professori universitari e anche certi giornalisti, che hanno dipinto le mafie agropastorali e non solo, quasi come mero folclore. Ancora oggi uomini di pseudo-cultura e pseudo-intellettuali si permettono di fare una temeraria differenza tra ‘la mafia buona’ di una volta e la mafia cattiva di oggi. Un’analisi seria comporta un processo asettico, svincolato dalle proprie ideologie politiche e da pregiudizi anacronistici. Si deve partire ancor prima dell’Unità d’Italia, su di un piano rigorosamente documentale. Negli ultimi vent’anni c’è stata una proliferazione di libri sulle mafie, per lo più romanzati e che a ben leggerli sono sin troppo simili tra loro, sempre privi di elementi innovativi e mai suffragati da un tale e indispensabile presupposto e approccio storico-scientifico.
Oggi non so se la mafia calabrese sia la più potente del mondo occidentale, ma sicuramente è la più ricca, non fosse altro perché importa l’80% della cocaina in Europa. Nei libri “Fratelli di sangue” e “Dire e non dire”, scritti insieme al professor Nicaso, raccontiamo che le prime volte che incontrammo il termine ‘ndrangheta furono rispettivamente in un documento del 1930, trovato nell’Archivio di Stato di Reggio Calabria e poi nel 1951, quando il celebre scrittore Corrado Avaro, figlio di uno ‘ndranghetista, in un articolo de Il Corriere della sera usa tale denominazione. Da una ricerca documentale sul carcere dell’isola di Favignana, esistente già nel periodo borbonico, abbiamo scoperto che tutti gli oppositori venivano rinchiusi insieme. Oltre ai detenuti politici, vi erano anche criminali campani, calabresi e siciliani, i quali cominciano a mutuarne gli atteggiamenti, i comportamenti, i codici di linguaggio, nel tentativo di vestire di nobiltà il loro modi arcaici, rozzi e incolti.
Venivano così a generarsi delle nuove regole al punto che, dopo l’Unità d’Italia, erano attivi nel latifondo attraverso la figura del massaro, dedita a gestire la classe contadina e altre maestranze, presenziando alla divisione del ricavato dei prodotti. Subentrarono quindi dei nuovi piccoli delinquenti, i “picciotti”, che rubavano nei terreni del padrone. Il massaro, per risolvere tali problemi non si rivolgeva alle istituzioni di allora, ma negoziava direttamente con loro, andando a restituire una parte di quanto sottratto e tenendosi per sé una cospicua ricompensa. Così facendo, il ladruncolo diventò l’interlocutore privilegiato nell’amministrazione della giustizia, dell’ordine pubblico, della sicurezza e della gestione dell’ordine sul latifondo.
Colui che prima viveva di espedienti, riesce ad avere tanto di quel potere da intervenire anche nel conflitto tra famiglie; nella lite di un confine, per una figlia sedotta e abbandonata ed altre problematiche. Questo succedeva già nell’Ottocento, ad esempio nel 1869 durante le elezioni comunali a Reggio Calabria. Fu il primo caso di elezioni annullate da un Prefetto in Italia per brogli. Vi erano due liste, una appoggiata dalla chiesa e dai Borboni, l’altra dai latifondisti e dalla classe borghese. Cosa fa allora la classe borghese in quell’occasione? assolda i picciotti per andare a malmenare i candidati e gli elettori della lista opposta. Il Questore si prestò inoltre a fare incarcerazioni preventive per chi si pensava avesse votato contro la parte rappresentata da latifondisti e borghesia.
Ieri come oggi, abbiamo sempre questa classe dirigente, borghese, in giacca e cravatta che dà benzina alla macchina della criminalità. Facendo poi un salto lungo un secolo, fino al periodo più nero della Calabria, quello dei sequestri di persona, il “figlio-mostro” generato dalla classe dirigente borghese “mangia la mamma” che l’ha generato. Ovvero,tutta la borghesia degli anni ’70/80 viene spazzata via, ogni persona benestante calabrese, venne sequestrata. Chi rimase svendette latifondi e beni, spostandosi in centro Italia. Da allora i figli degli ‘ndranghetisti, laureati sopra o sottobanco, per favorìe oppure minacce, sono diventati a loro volta classe dirigente. Medici, ingegneri, avvocati, con titolo di studio legale quindi, ma con approccio mafioso, gestendo di conseguenza la cosa pubblica in modo malavitoso; come nel caso della Sanità, tanto che ora come ora, chi può e si ammala, anche solo di bronchite, scappa da Roma in su a farsi curare.
Dottor Gratteri, si parla molto di mafie ultimamente, ma forse non se ne parla nei giusti contesti e da un corretto punto di vista. A causa anche di film e serie tv si ne è impressa una visione sicuramente distorta nell’ immaginario collettivo. Quanto questa sorta di idealizzazione romanzata, è mistificata e quindi deleteria rispetto al contesto che noi tutti oggi viviamo?
Non bisogna banalizzare e prendere in considerazione una narrazione falsa della realtà delle cose. Io ho dedicato gran parte della mia vita al contrasto delle mafie. Un fenomeno a cui prestare particolare attenzione è il possibile condizionamento diretto o indiretto di alcuni media d’élite, da parte di queste associazioni criminali che, sistematicamente, cercano di delegittimare le attività dei servitori dello Stato. La mafia non ha ideologia, è vigliacca, ha sempre ucciso anche donne e bambini in modo feroce; l’unica ideologia che ha, è quella dell’aumentare il proprio potere. Non esiste la mafia buona, non esiste distinzione fra mafia buona e cattiva. Se parliamo di rispetto delle regole, i capimafia non rispettano regole, fanno le loro regole che gli altri devono rispettare, per poi ucciderli, per condannarli in un processo-farsa. Posso raccontare di capimafia, di contabili che, con la scusa dell’assistenza alle famiglie dei detenuti, violentavano le donne degli stessi detenuti. Anche quando voi sentite miei colleghi, studiosi, economisti, analisti, che dicono che la mafia è in grado di schiacciare un bottone e muovere milioni, sono balle. Io vorrei che i cosiddetti addetti ai lavori incominciassero a parlare di realtà, non di fantasie. Raccontiamo le storie vere, cosicché la gente si dia la misura esatta di come stanno le cose e che si possano poi, in modo serio e tecnico, creare le norme proporzionate alla realtà criminale per poterla contrastare.
Come può la rete del narcotraffico far arrivare la droga in Europa, nonostante i controlli e come si connettono le mafie fra loro?
“Esiste una struttura terroristica sovranazionale che sta appunto sopra gli Stati e le mafie, una sorta di agenzia recupero crediti, alla quale si rivolgono i cartelli colombiani, anche quando qualche creditore non paga. Ogni volta che un’organizzazione di “cocaleros” (nata a Chapare in Bolivia e dedita alla coltivazione della coca), trasporta cocaina dalla foresta amazzonica deve pagare loro una tassa di quattro dollari al chilo. Se il narcotrafficante non paga o viene beccato, automaticamente viene ucciso in modo feroce, plateale, così che funga da esempio. Posso raccontare di un fatto realmente accaduto. Un trafficante di cocaina di San Calogero non pagò una partita di coca ai terroristi colombiani, loro si rivolsero a questa organizzazione e la stessa si rivolse all’ETA in Spagna, che inviò due uomini nel paese del trafficante. Questi trovarono la casa e la fabbrica e mandarono le foto in Sud America e da lì le inviarono a questo trafficante di San Calogero, intimandogli che, sapendo dove abitasse, gli avrebbero distrutto la casa e fabbrica, dopodiché l’avrebbero ucciso. In Sud America la Colombia è lo stato che maggiormente contrasta il narcotraffico e badate che la Colombia è il secondo paese al mondo, dopo la Cina, per quel che riguarda la crescita del prodotto interno lordo. E’ uno degli stati in cui la DEA Americana investe di più e i narcotrafficanti non fanno più partire i carichi di cocaina dai porti colombiani, ma cercano di farli partire da sud rispetto a Colombia, Bolivia e Perù, perché i territori risultano meno controllati. Uno di questi è ad esempio il Brasile, dove la polizia giudiziaria è scarsa se pur di qualità e dove esiste il più grande porto del Sud America con 35 chilometri di banchine”.
Il Procuratore continua poi spiegandoci come spesso, purtroppo, con la complicità di uomini corrotti, si riescono ad eludere i controlli nei principali porti ed aeroporti e come la cocaina arrivi in tanti modi: confusa in dei grossi carichi, in dei container, ingerita da viaggiatori divenuti trafficanti improvvisati, grazie a cani di grossa taglia o ancora con doppi e tripli fondi in valigie, mobili ed in alcuni casi, impregnata in abiti di vestiario.
Perché la ‘ndrangheta fa affari in Sud America? Fin dove si estendono i tentacoli della malavita tra Italia, Europa e Stati esteri?
Voi sapete che la cocaina si produce solo in Colombia, Bolivia e Perù. Posso assicurarvi che i vertici delle mafie non sono in grado di fare riciclaggio sofisticato, seppur ricchi, il loro problema è di giustificare la ricchezza. Sono in grado di fare speculazione edilizia, comprare latifondi per poi renderli edilizi, creare villette a schiera, investire in supermercati o nel Terziario, ma il mafioso che investe in Borsa io ancora non l’ho visto. Esiste invece il mafioso che per far riciclaggio sofisticato si serve di professionisti, di commercialisti, di esperti bancari, che in cambio di denaro sono disposti a farlo. La forma più potente e importante di riciclaggio da parte delle mafie è il traffico di cocaina. Mentre Cosa Nostra era impegnata in ostracismi, facendo la guerra allo stato, la ‘ndrangheta con i sequestri di persona comprava camion, ruspe ed entrava alla grande nel mondo dell’edilizia e nella costruzione delle grandi opere pubbliche e intanto, intercettando i consumi, mandava in Colombia e Bolivia dei broker a vivere in Sud America. Questi broker poi lì, hanno messo su famiglia, assolvendo con l’andar del tempo al compito di comprare coca al prezzo più basso. Qui si rende evidente un dato che va oltre, quello della credibilità, del prestigio, andando a considerare la ‘ndrangheta come interlocutore serio, una serietà criminale, una professionalità criminale. La ‘ndrangheta è una delle poche mafie che è arrivata a comprare la cocaina in conto vendita e produce cocaina in società con i cartelli sudamericani. Non vende al dettaglio, non ha il controllo delle semplici piazze, vende all’ingrosso a nigeriani e ad organizzazioni criminali del Nord Africa oppure a organizzazioni criminali locali. Poi la droga arriva al pusher di strada, il morto di fame, che per avere una dose gratis, su 5 ne vende 4.
A ritroso i soldi ritornano, ma solo il 9% in Sud America, perché queste organizzazioni investono in Europa, preferiscono investire in zone ricche, sia perché è più facile mimetizzarsi e sia perché si guadagna di più. Quindi si aggiunge un problema al problema.
C’è una connessione tra narcotraffico e terrorismo?
al narcotraffico certamente si inserisce il terrorismo in questo contesto. Più volte nelle indagini incontriamo il terrorista delle Auc (gruppo terroristico paramilitare sudamericano), che fa affari con la ‘ndrangheta. Una delle nostre indagini più importanti con le Auc è stata quando abbiamo indagato il capo delle Auc, Mancuso Salvatore, originario della provincia di Salerno. Questo Mancuso, cresciuto nelle università americane, parlava perfettamente anche il castigliano, era in affari con la ‘ndrangheta e stava comprando una città, un paese attorno a Lucca, per trasferirsi durante le trattative tra i terroristi delle Auc e il governo colombiano. Volevano venire in Italia. Aveva 35 parlamentari colombiani nel suo libro paga, ad un certo punto l’indagine si è allargata, tanto che abbiamo avuto bisogno di fare intercettazioni in Sud America. Allora parto per il Sud America arrivo all’aeroporto di El Dorado, ci mettiamo in questi jeeppòni e mentre arrivavamo in albergo, vedo molte jeep verdi con questi uomini in divisa militare e pensai ci fosse una qualche parata, di cui non eravamo stati informati. Arrivati in albergo, noto che, stranamente, erano presenti anche lì. Parliamo allora con la polizia e con i Magistrati e considerate che anni fa con dei missili terra-aria hanno attaccato il tribunale di Bogotà uccidendo sei Magistrati. Corrono quindi ancora un grosso rischio, tanto che a titolo precauzionale, sulla loro porta non vi è scritto il loro nome, ma il numero della stanza e quando il Magistrato interroga c’è un vetro oscurato, la voce viene cambiata per ovvi motivi di sicurezza. Bene, arriviamo a fare molti arresti e la DEA americana dopo un anno e mezzo riesce a catturare Salvatore Mancuso, portandolo a Washington. Io parto per interrogarlo, entro nel carcere e lui, appena mi vede mi dice: “Noi ci conosciamo, io ero nell’albergo quella sera quando lei è venuto a Bogotà”; dacché gli chiedo: “ma lei come faceva a sapere che io ero nell’albergo?”, mi rispose: “volevo vedere chi era questo pazzo che veniva dall’Italia ad indagare su di me. Il generale dell’esercito colombiano era nel mio libro paga, il direttore dell’aeroporto di El Dorado era un mio uomo”.
Esiste ancora la ‘ndrangheta del tritolo, che controlla il territorio?
Non esiste ‘ndrangheta se non c’è un territorio, la struttura base è l’estensione del territorio sulla quale si esercita il potere. Sul piano processuale abbiamo visto come geometri, ingegneri di queste grandi società e multinazionali del nord, siano scese prima dell’inizio dei lavori per contrattare con i capimafia dei rispettivi territori, per non incorrere poi in quel rito del tritolo sulla ruspa o sull’escavatore. Questo è controllo del territorio. Oggigiorno però vediamo sempre meno quella mafia che aspetta al cantiere la mazzetta, ma vediamo una ‘ndrangheta che sempre più cogestisce la cosa pubblica, intervenendo nella gestione e nell’organizzazione della vita politica ed amministrativa di un territorio. Oggi vediamo che nel mondo della ‘ndragheta il fenomeno estorsivo è sempre più raro, mentre si sono sviluppate operazioni molto più complesse e raffinate.
E’ organizzata nella grande distribuzione di tutti i beni, dai generi alimentari al cemento. Un imprenditore mafioso riesce a vendere a prezzi inferiori rispetto a un normale distributore, riciclando i soldi della cocaina. Le piccole Banche a livello locale spesso sono colluse, le nomine dei Consigli e degli amministratori sono facilmente corruttibili, ancora di più le finanziarie, nonostante quest’ultime richiedano più garanzie e concedano prestiti facilmente con tassi di interesse elevati. Quindi vediamo questi creditori mafiosi che si fanno prestare soldi da piccoli istituti privati, prevalentemente nel nord Italia. Questi prestiti vengono poi messi in circolo costruendo attività commerciali anomale, riuscendo a vendere gli stessi prodotti a un prezzo inferiore sfuggendo così alle normali regole commerciali.
Ricordiamo tutti la cruenta faida di Taurianova, che portò al provvedimento d’emergenza del 1991, una misura normativa unica nel mondo, che ha permesso lo scioglimento di più di 300 Comuni a distanza di trent’anni. Qual è la situazione ad oggi?
Io sono forse quello che sta dando più lavoro di tutti alle prefetture e al ministro degli Interni riguardo allo scioglimento dei Comuni per mafia. Nell’ultimo anno se ne sono sciolti tanti e purtroppo se ne scioglieranno ancora tanti. I Commissari prefettizi devono avere gli stessi poteri del Sindaco, se non di più, perché un Sindaco che fa una lista elettorale sa benissimo chi sono i candidati delle liste e come siano collusi con le mafie. Il Commissario prefettizio deve quindi avere anche il potere di annullare delle delibere già approvate dalla Giunta comunale. Noi ci siamo ritrovati in un paesino in provincia di Reggio Calabria, dove il Comandante dei vigili urbani era la figlia del capomafia. In quel caso, il Commissario prefettizio si trovò a collaborare con la figlia di un capomafia nei casi di abuso edilizio, occupazioni di suolo pubblico, eccetera. Di Comuni comunque se ne scioglieranno molti altri, lì dove non sono espressione di democrazia e volontà popolare.
Dottor Gratteri, nel 2014 lei è stato nominato come componente della task force per l’elaborazione di proposte in tema di lotta alla criminalità organizzata. Nel suo progetto di riforma declinato in 130 articoli si parla anche di informatica e tecnologia come innovazioni in campo giudiziario e processuale. Il tanto discusso “processo a distanza” avrebbe implicazioni anche per quel che riguarda il sovraffollamento delle carceri. In che modo porterebbe alla risoluzione del problema?
L’ informatica oggi batte i tempi del processo, i costi del processo ed il potere intenzionale dell’uomo, quindi dell’abuso. Le carceri non sono sovraffollate perché sono piene, ma perché molte sezioni vengono chiuse per mancanza di personale. In Italia ci sono 44.000 uomini della polizia penitenziaria e ogni giorno 10.000 di questi vengono impiegati per fare traduzioni e trasferimenti. Volendo fare un esempio, un detenuto che dal carcere di Tolmezzo deve venire il giorno seguente a processo presso il tribunale di Catanzaro, parte da Tolmezzo su di un furgone con5 uomini ed arriva all’aeroporto di Venezia, sale sull’aereo con 5 uomini e arriva a Roma, poi da Roma arriva a Lamezia, poi un altro furgone con 5 uomini da Lamezia lo porta a Catanzaro. Dopo di che, la mattina seguente torna con altri 5 uomini e così via. Questo “giochino” costa 70 milioni di euro l’anno con il rischio d’ evasione durante il tragitto ed il rischio che, anche nelle pause d’udienza o in altri momenti, il detenuto possa mandare richieste di tangenti o minacce di morte all’esterno. Nel progetto di Riforma, la mia commissione ha previsto che il detenuto stia in carcere a Tolmezzo collegandosi in videoconferenza al tribunale di Catanzaro, sia come indagato, sia come imputato, sia come testimone retro connesso o anche se si deve separare con la moglie. Immaginate con 70 milioni di euro quanti uomini sarebbe possibile assumere nella polizia penitenziaria, quanti nella cancelleria e nella segreteria ogni anno. Mettiamo per esempio che si stia facendo un processo per bancarotta e vengano sentiti 40 testimoni. Ad un certo punto un giudice viene trasferito ed un altro giudice si insedia al suo posto, l’ avvocato non dà l’assenso al rinnovo degli atti e il processo in questo modo ricomincia da capo. I 40 testimoni verranno risentiti nuovamente in fase processuale, questo vuol dire pagare 2 volte il viaggio di ognuno di essi. Nella nostra proposta di riforma abbiamo previsto la video registrazione del teste in modo che, riprendendo l’ esempio di prima, il giudice che va ad insediarsi veda il dvd e nel momento in cui non ci sia necessità di fare domande inedite, il processo possa andare avanti. In questo modo, inoltre, l’avvocato che per inciso ha la responsabilità penale del suo cliente, non potrà tentare di mandare il processo in prescrizione. Per problematiche come il ritardo di notifica o l’omessa notifica che fanno sì che il processo si rinvii per altri 7 o 8 mesi, abbiamo previsto l’ introduzione di una PEC (Posta elettronica certificata) per ogni cittadino maggiorenne. Potremmo stare settimane a far esempi di informatica applicata al processo e alla giustizia. Attuare queste norme e innovazioni, non vuol dire abbassare il livello di garanzia, ma vuol dire efficienza, vuol dire risposte, perché non si comprimono i termini di base, ma si ha la sicurezza che tutte le fasi vadano a buon fine.
Oltre a queste importanti riforme in ambito giudiziario, dove c’è più bisogno di un cambiamento in Italia? Qual è la sua visione rispetto al livello culturale dei ragazzi italiani ed all’istituzione scolastica?
In Italia siamo ancora ai fondamentali, prima di parlare di cultura dobbiamo parlare di istruzione. Non si è saputo creare una scuola a tempo pieno che dia la possibilità alla mattina di insegnare e imparare italiano, matematica ed altre materie ed al pomeriggio la possibilità di approcciarsi alla cultura. Stiamo svendendo l’istruzione e le università. Ad oggi le università italiane non sono competitive con il resto del mondo ed in particolare non sono competitive in Europa. Perché questo? Perché servono fondi e riforme, tante riforme che ucciderebbero le baronìe. Possiamo affermare che in Italia non si sta facendo istruzione. Nella stragrande maggioranza i ragazzi, anche agli esami universitari, non sanno parlare in italiano senza sbagliare, non sanno scrivere in italiano. I più bravi, scrivono cinque righe senza un punto e con due virgole. Mi ritrovo spesso a correggere la punteggiatura ad avvocati, colleghi, laureati in Giurisprudenza e mi rendo conto che oltre ad esser l’allievo a non imparare, anche i professori troppo spesso non sanno parlare e scrivere in italiano corretto. L’ insegnante deve tornare ad essere una figura rispettabile e di cultura, deve venir adeguatamente retribuito e non essere un insegnante a cui si da del “tu”.
La mia missione non è semplice ma sento che oggi forse, dopo decenni di sacrifici, comincio a intravedere un cambiamento. Insieme alle Forze dell’ Ordine, nel mio ruolo di Procuratore della Repubblica, sto crescendo e guidando una generazione verso un nuovo pensiero, un nuovo approccio tecnico di indagine, una nuova filosofia del lavoro. Questa rivoluzione mentale, presto la faremo anche sul piano giudiziario.