Il sapore verde nella cultura popolare tra sazietà e benessere. Il sapore verde nella cultura popolare tra sazietà e benessere.

Il sapore verde nella cultura popolare tra sazietà e benessere.

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Pino Cinquegrana – Antropologo

La storia della civiltà contadina calabrese è prettamente caratterizzata da un mangiare frugale ma gustoso, energico e salutare come raccontato all’Europa da autori come George Gissing, Henry Swinburne e Norman Douglas (quanto per citarne alcuni), più volte ripresi nei loro studi dall’etnologo Luigi M. Lombardi Satriani (1984) e dall’antropologo Vito Teti (1995).

Scrive il dottor D. Pignatari (1894) “il peperone è adoperato come condimento, eccitante e digestivo. […] un medico di Monteleone (oggi Vibo Valentia) raccomandava ad un suo paziente che gli aveva prescritta la cura, specialmente di usare dei rinfrescanti [peperoncino]” che veniva usato, all’epoca per curare la febbre malarica, il raffreddore, l’artrite, ma anche usato come afrodisiaco.

Le erbe di campo (ervi i margiu), però, hanno rappresentato la base della cucina contadina del Mediterraneo: cicori, losani, cardeji e finocchio selvatico, il cui suggerimento popolare è quello di raccoglierli con il plenilunio in quanto conservano maggiormente le loro caratteristiche salutari e assumono anche linguaggi apotropaici di buon auspicio. Erbe regalate spontaneamente dalla terra margia, non coltivata, durante il riposo autunnale e per tutto l’inverno, cotte e semplicemente condite, paniciate o stranghiate (ripassate in tegame di terra cotta) da sempre hanno rappresentato l’abbondanza della tavola contadina arricchita con olive, del formaggio e legumi, qualche volta del tonno preparato in casa. Sono state l’abbondanza della tavola che ha saziato la fama di pastori, contadini, mietitori preparata dalle donne che vengono ripresi dal detto popolare (Joseph Vittorio Greco, 1965):

Nui jamunindi o fimmani ch’è notti,

ca vinni l’ura di lu cucinari,

mu ndi gugghiumu cavuli e finocchi

ca carni no nd’avimu pe’ dinari.

La carne viene consumata poco, quasi mai se non per le feste comandate e in questo modus vivendi il dialetto popolare recupera sottolineando che tutto sommato ringraziamu a Ddeu pe’ bon’ervi.  (nel Saracide e in diverse altre parte della Bibbia sono molti i riferimenti ad erbe usate dal popolo per il mangiare e per la cura di diverse malattie).

Olio, basilico, aglio, peperoncino, divengono condimenti essenziali per rendere origano (quest’ultimo introdotto nelle terre del Mediterraneo dai Cavalieri Templari) divengono condimenti essenziali per rendere a cucina sapurita e dall’atra parte un proverbio calabrese sottolinea quanto ervi e cundimi costituiscono l’abbondanza e la salute anche perché a megghiu medicina è lu mangiari (trasposizione popolare del dire ippocratico).

In tutto questa narrazione, cicori (la cicoria selvatica) la fa da padrona. Erba spontanea facente parte della tradizione contadina del mangiare mediterraneo che trova antiche e moderne conoscenze che passano dalla forma latina cicoria che nella forma neutro plurale fa cichorium, altri studiosi riportano dalla forma egizia kicorion (erba spontanea), per i greci è la kichora e nel mondo arabo la chichouryeh o chicourey. Nelle lingue europee è detta chicorée (francese), anchicoria (spagnolo), Chicory o succory (inglese), zichorien (tedesco). Il mondo scientifico dell’Ottocento la reputava utile per la digestione, per curare l’itterizia e l’ipocondria (Geoffery e Murray) come viene riportato da Francesco Gera (1848).

Questa risorsa alimentare ben conosciuta dal mondo popolare calabrese diventa persino letteratura magica come nel racconto raccolto da Italo Calvino Le tre raccoglitrici di cicorie probabilmente ripresa dalla raccolta di Letterio Di Francia Fiabe e novelle calabresi 1929-1931, I tre cicorari, e il dialetto è quello di Palmi, in provincia di Reggio Calabria.

Cotta o stranghijata con aggiunta di fave o fagioli rendono questo piatto nutriente e con pochissime calorie sempre condita con olio extra vergine delle nostre terre, l’aggiunta di uno spicchio d’aglio e rafforzata da un peperoncino. Da gustare caldi o freddi accompagnati da un buon bicchiere di vino rosso nicoterese.

La cicoria rientra nel mangiare dei poveri che oggi, però, è ricercata dai ricchi che la comprano nei mercati contadini locali a peso d’oro. Quelli che la sanno raccogliere fanno scorte per un intero anno. Una volta raccolta, pulita e cotta la rendono come una forma di arancino a pajuni e la surgelano conservandola da consumare al bisogno. Le radici di questa erba selvatica contengono principi attivi come colina (tiene sotto controllo il colesterolo), l’insulina (abbassa la glicemia), potassio (necessario alla parte muscolare) e, comunque, ancora ferro e calcio. Sotto forma di decotto la cicoria ha proprietà diuretiche, depurative e ipoglicemizzanti. Anticamente, fimo al primo decennio del Novecento le radici di cicoria essiccate e poi fatte a pezzettini ed infine macinate venivano usate come surrogato del caffè. Erba di elevato valore nutriente e salutare citata anche nel papiro di Erbes del XVI secolo a.C. e di cui ne parlano Galeno (Pergamo, 129 – Roma, 201 circa) e Dioscoride (Anazarbo, 40 circa – 90 circa) sottolineando la bontà per depurare il sangue e per stimolare le funzioni epatorenali.

Storie multiple facenti parte della dieta mediterranea che rende ideale lo stesso concetto di stile di vita che inizia camminando tra i campi per la ricerca della cicoria e prosegue a tavola.

 

Pino Cinquegrana -Antropologo-Componente del Comitato Scientifico Accademia Internazionale Dieta Mediterranea Italiana di Riferimento Città di Nicotera

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