IL castello di Corigliano Calabro: Come ricavare ricchezza da un bene culturale

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Il castello di Corigliano Calabro è una fortezza risalente all’XI secolo, sito in provincia di Cosenza nel comune omonimo. È stato definito come uno “fra i castelli più belli e meglio conservati esistenti nell’Italia meridionale. L’origine del castello di Corigliano Calabro è legata alla figura di Roberto il Guiscardo (Roberto d’Altavilla), il re normanno d’aspetto gigantesco.
Fu lui, secondo il suo biografo Goffredo Malaterra, a volere nel 1073 la costruzione di un fortilizio vicino Rossano (Italia), nell’ambito della linea di difesa realizzata in Valle Crati tra il 1064 e il 1080. Rossano era allora ancora fortemente permeata di religiosità e cultura bizantina e frequenti erano gli episodi di ribellione verso i nuovi conquistatori. La vicina Corigliano, pur essendo solo un piccolo borgo arroccato sulla collina detta ” del Serratore”, poteva subirne l’influenza e Roberto non voleva correre rischi. Da qui la decisione di costruire il castello che, secondo la tradizione normanna, aveva non tanto lo scopo di proteggere il territorio da pericoli esterni, quanto di far sentire alla comunità il peso del potere dominicale. Il primo signore del castello di Corigliano fu un vassallo del Guiscardo, Framundo, proveniente da L’Oudon (Francia), al quale seguirono suo fratello Rinaldo e poi suo nipote Guglielmo. Dopo un secolo dalla costruzione della fortezza il re

Tancredi di Sicilia concesse in feudo Corigliano e tutte le sue terre a Ruggero Sanseverino. I Sanseverino, destinati a diventare una delle famiglie più potenti del Regno di Napoli, mantennero il loro potere a Corigliano fino agli inizi del Seicento. Fu uno dei Sanseverino, Roberto, conte di Corigliano tra il 1339 e il 1361, ad attuare gli interventi che cominciarono a trasformare radicalmente l’aspetto del castello. A questo periodo infatti risale la costruzione all’interno del lato sud della struttura di alcune importanti e comode stanze signorili. Geronimo Sanseverino,
nato attorno al 1447, divenne conte di Corigliano nel 1472. Personaggio ambiguo dal carattere debole, influenzato dal principe di Salerno, suo parente, partecipò alla cosiddetta “congiura dei baroni” che nel 1485 venne ordita contro Ferdinando I D’Aragona. La rivolta fallì e due anni dopo, nel luglio del 1487, Geronimo assieme ad altri baroni meridionali venne arrestato per alto tradimento e rinchiuso nelle carceri di Castelnuovo dove morì.
Sua moglie, Giovanna Gaetani riuscì a salvarsi solo grazie ad una avventurosa fuga che la condusse esule in Francia. A Geronimo vennero anche confiscati tutti i suoi beni, compreso il castello di Corigliano Calabro, affidato al comandante castrovillarese Sansonetto Musitano. In seguito a questi gravi avvenimenti, il re aragonese si convinse ancora di più della necessità del potenziamento
già in atto del sistema difensivo e repressivo del regno, con particolare attenzione alle fortezze, alle torri e ai castelli. Il figlio di Ferdinando, Alfonso duca di Calabria effettuò un viaggio di ispezione in Calabria dal 2 gennaio al 22 aprile del 1489, accompagnato dall’architetto fiorentino Antonio Marchesi da Settignano, allievo di Francesco di Giorgio Martini il più grande architetto militare
del tempo. La folta comitiva reale soggiornò a Corigliano dal 20 al 22 marzo ed in quell’ occasione furono decisi i lavori di ristrutturazione e consolidamento che avrebbero dato al castello di Corigliano la caratteristica impronta “aragonese”. Venne rafforzato il potente mastio collegato
al castello tramite un ponte levatoio, fu allargato e reso più profondo il fossato su cui si poggiavano le scarpate delle torri di cui tre di loro sono più piccole e incastonate alla struttura quadrangolare, venne anche rafforzato il ponte levatoio principale protetto dal rivellino piccola struttura importante per la difesa del ponte stesso. I lavori si conclusero nel 1490, alcuni anni dopo nel 1495
i Sanseverino rientrarono in possesso della contea di Corigliano e quindi del castello dopo la vittoriosa conquista del Regno di Napoli da parte del re francese Carlo VIII.
Fu Bernardino, figlio primogenito di Geronimo, il beneficiario del decreto reale di restituzione dei beni. Agli inizi del Cinquecento cominciò per Corigliano una costante crescita demografica. Gli abitanti, nel 1532, erano quasi 4000.
Nel 1538 il terribile pirata Barbarossa, nel corso di una delle sue incursioni in Calabria alla ricerca di schiavi e ricchezze, rivolse il suo attacco al territorio di Corigliano.
I coriglianesi, dopo una vana resistenza erano sul punto di cedere quando Pietro Antonio Sanseverino, sedicesimo conte di Corigliano, fece diffondere la notizia che un suo servo avevo sognato S. Francesco di Paola che gli aveva predetto una sicura vittoria contro i barbari incursori.
Rassicurati da questa profezia, i cittadini si raccolsero nel castello e attorno alle porte delle mura cittadine, dopo una strenua resistenza riuscirono ad avere la meglio sui corsari guidati dal Barbarossa.
Pietro Antonio Sanseverino passò alla storia per la sua eccezionale prodigalità. A lui si devono, nel 1535, le trionfali accoglienza riservate a Carlo V, di ritorno dalla spedizione di Tunisi, nel castello di San Mauro. Alcuni anni dopo, nel 1540, volle che fossero ristrutturate e rese comode e sontuose altre stanze abitate del castello. Alla sua morte, nel 1559, lasciò un patrimonio dissestatissimo.
Nicola Bernardino, che gli succedette, non seppe riportare ordine dello stato delle finanze.
Continuò a spendere senza alcuna moderazione, attingendo a piene mani al patrimonio familiare, fino alla sua morte, avvenuta a Napoli nel 1606. Nel 1616, il feudo di Corigliano e S. Mauro, il più grande di casa Sanseverino, già confiscato dal potere regio, venne posto in vendita per sanare, almeno in parte, gli ingenti debiti.
Gli acquirenti furono Agostino e Giovan Filippo Saluzzo, figli del ricco mercante genovese Giacomo, che pagarono, ciascuno per la sua metà, la somma complessiva di 315.000 ducati. L’acquisto fu perfezionato da un prestanome, Vincenzo Capece, per evitare il “vallimento”, tassa dovuta alla Regia Corte dagli stranieri che si rendevano proprietari di feudi nel Regno di Napoli. I nuovi signori del feudo non riuscirono ad impedire il degrado ed il progressivo impoverimento del territorio. Aumentarono in pianura le zone paludose, riprese ad imperversare la malaria, mentre l’eccessivo sfruttamento fiscale degli Spagnoli provocava malcontento ed agitazioni sociali.
Nel 1647 il popolo di Corigliano si riversò in armi attorno al castello, stanco del potere feudale dei Saluzzo, diventato particolarmente vessatorio e rapace.
Era il 18 luglio, appena un giorno dopo l’inizio della rivolta anti spagnola scoppiata a Cosenza e dieci giorni dopo lo scoppio rivoluzionario napoletano guidato da Masaniello.
Il motivo fu il rifiuto del governatore della città di applicare un decreto vicereale che aboliva una tassa sulla farina. Alla testa della sommossa si mise il sindaco di Corigliano, Alessandro Mezzotero, affiancato dai notabili locali che speravano così di liberarsi di un feudatario diventato
troppo esoso. La protesta ebbe successo e il governatore tre giorni dopo firmò lo statuto con cui, tra l’altro, si riconosceva l’indebita appropriazione di beni pubblici e privati da parte del feudatario e si garantiva la libertà di commercio e di iniziativa economica. Ma Agostino II Saluzzo, piombato a Corigliano, si rifiutò di ratificare l’accordo. Una nuova ondata di disordini allora cambiò
carattere alla rivolta, tanto che la frazione popolare assunse il controllo della città, sotto la guida di Pompeo Perrone. Il Saluzzo si barricò nel castello e qui riuscì a resistere per alcuni mesi persino quando fu assalito e assediato a lungo dalle truppe rivoltose repubblicane guidate da Marcello Tosardo. In seguito a questi fatti, colpito dalla fedeltà dimostrata alla causa spagnola, nel 1649 Filippo IV di Spagna concesse ad Agostino, ed ai successori, il titolo di Duca sulla terra di Corigliano. Furono i Saluzzo a trasformare e migliorare radicalmente l’aspetto del poderoso castello, tanto che ben presto esso divenne la loro abituale dimora. Nel 1822 i Saluzzo furono costretti a cedere tutte le loro proprietà a Giuseppe Compagna(1780-1834), nato a Corigliano ma di origini longobucchesi. Uomo d’affari spregiudicato ed abile, il Compagna riuscì a ricomporre
la grande proprietà fondiaria che le leggi antifeudali del 1806-1808 avevano tentato di frazionare.
L’acquisto del castello fu perfezionato dal Compagna nel 1828 e suo figlio Luigi(1828-1880) vi portò le ultime, definitive, modifiche. Dopo la seconda guerra mondiale la famiglia Compagna
si trasferì definitivamente a Napoli ed il castello, il 9 agosto del 1971 venne venduto alla Mensa Arcivescovile di Rossano per 20 milioni di lire. C’era stato un timido tentativo da parte di Francesco Compagna di cedere l’immobile al comune di Corigliano calabro, non se ne era fatto nulla perché gli Amministratori dell’epoca erano spaventati dagli alti costi necessari alla ristrutturazione e alla gestione. La Curia rossanese si rende però ben presto conto di non avere fatto un buon affare. Il castello è prestigioso, ma è anche sproporzionatamente costoso rispetto all’uso (sede
di una scuola per l’infanzia affidata alle suore) cui viene adibito. Cominciarono così, alla metà degli anni settanta, discrete trattative la Curia e il comune di Corigliano, rappresentati dal vescovo Antonio Cantisani e dal sindaco Franco Pistoia.
Le trattative vanno a buon fine e l’11 marzo 1979, con rogito del notaio dott. Gemma Terzi di Corigliano, il castello stello passa di proprietà al Comune di Corigliano Calabro ad un prezzo di 65 milioni di lire. Fin dall’inizio si pone il problema del restauro dell’immobile, ridotto in condizioni di grave degrado. Nel 1980 e poi nel 1983 tre tecnici, l’architetto Mario Candido, l’architetto Leonardo Scarcella e l’ingegnere Giuseppe Smeriglio vengono incaricati della redazione di un progetto generale di consolidamento finanziato restauro e destinazione d’uso del progetto dalla Comunità europea, Oggi il castello è un monumento nazionale dichiarato per legge nel 1927, ed è museo storico artistico culturale dell’intera comunità. Nel corso degli anni si è qualificato come un polo culturale d’eccellenza non solo per la città ma per tutto il Cosentino e la regione. ospitando eventi culturali di notevole spessore. Il suo recupero – anche mediante la leva dei fondi Ue – rappresenta una azione felice eserciata congiuntamente dagli enti locali interessati e da tutti i corpi sociali della collttività corioglianese: un esempio da seguire e da esportare.

Da sempre emblema del castello per l’eccellenza, il mastio si erge con la sua statura di gigante, sorprendendo ancora oggi per l’imponenza della base scarpata, abilmente coniugata con l’eleganza delle finestre ad arco e delle torri merlate. Tipici esempi di architettura militare Aragonese, il mastio e le altre torri del Castello mostrano forma cilindrica, a base larga, con scarpe che salgono fino ai due terzi della loro altezza. Anima del mastio è la vertiginosa scala a chiocciola in ferro voluta dai Compagna, si riavvolge su se stessa per tutta l’altezza della torre, in un crescendo di decori ed affreschi eseguiti dal pittore fiorentino Girolamo Varna attorno al 1870.  Il mastio si divide in quattro livelli fino ad arrivare in cima alla torre, ogni livello ha la sua caratteristica diversa dagli altri. Piano terra: Il piano terra che doveva far parte della struttura più antica del castello, è affrescato solo nella volta con motivi geometrici monocromatici; il Piano delle crociate: il più ricco dei quattro livelli con affreschi di antichi sovrani e cavalieri alle pareti e drammatiche scene di battaglie nelle numerose lunette incorniciate da stucchi sulla volta. Piano dell’antica Roma: in questo piano gli affreschi nei tondi della volta eternano famose scene dell’antichità classica, in un geometria che si compone in petali avvolgendosi a fiore sul tortuoso stelo della scala; il Piano degli scudi: ultimo piano del mastio, sono presenti numerosi scudi effigiati ad intervalli regolari lungo il perimetro della volta sulla quale spiccano regali figure assise in trono, contornate dai simboli del loro potere. Luigi Compagna per dare l’ultimo tocco di splendore al castello chiamò Girolamo Varna autore dell’affresco nella cupola della chiesa di S. Agostino e di tutti gli affreschi nei vari livelli della torre mastio. Nello stesso periodo Ignazio Perricci da Monopoli realizza il Salone degli Specchi, capolavoro questo dell’arte decorativa del barocco napoletano. Il soffitto è affrescato con effetto “trompe-l’oeil”, ossia con una prospettiva aperta su un cielo stellato denominato il “palcoscenico della vita”. L’insieme presenta un ricco arredo, impreziosito da lampadari di cristallo di Boemia. Nel 1869-1872, lo stesso Luigi Compagna commissiona il trittico della “Madonna delle Rose con ai lati Sant’Agostino e Sant’Antonio Abate”, al maestro Domenico Morelli, il più celebre dell’Ottocento napoletano.

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