TRASFORMISMO E STORIA D’ITALIA.

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Promosso dall’Associazione Culturale Anassilaos, congiuntamente con Spazio Open, ancora un incontro in remoto, con il Prof. Antonino Romeo sul tema “Trasformismo e storia d’Italia”. Le recenti e poco edificanti vicende della politica italiana hanno riportato in primo piano il fenomeno antico e sempre ritornante del trasformismo, cioè l’abitudine di parecchi parlamentari a spostarsi da una parte all’altra dello schieramento politico. Secondo alcuni studiosi, soprattutto di area anglo-sassone, il trasformismo sarebbe radicato nel DNA di noi italiani e sarebbe il logico punto di arrivo di tutta una vicenda storica segnata da scarso senso della moralità collettiva e, di converso, da un’alta propensione al compromesso deteriore e alla corruzione. Se il trasformismo è presente da sempre nella nostra storia parlamentare, ciò dipende non dalla scarsa tempra morale degli italiani, ma dalla cornice costituzionale in cui si è sviluppata sin dalle origini la nostra storia unitaria, che non ha privilegiato il ruolo del Parlamento, e dalle stesse modalità con cui si è giunti all’unificazione nazionale. A differenza di quanto avvenuto in Gran Bretagna e in Francia, da noi il Parlamento ha avuto un ruolo trascurabile nella costruzione del nuovo Stato, frutto pressoché esclusivo dell’abilità diplomatica di  Cavour. A ciò si aggiunga che per lo Statuto la guida e la responsabilità dell’esecutivo spettavano solo al re e solo la prassi introdusse gradualmente il principio della responsabilità del governo dinanzi alla Camera elettiva, un principio che, peraltro, ogni tanto veniva messo in discussione proprio richiamandosi alla lettera dello Statuto stesso. Tutto questo non conferiva al Parlamento il prestigio indispensabile ad essere percepito come centro pulsante e decisivo della vita pubblica, una debolezza accentuata dal sistema elettorale censitario, e perciò ristretto, che attribuiva il diritto di voto a poco più del 2% della popolazione. Con la riforma del 1882 il numero degli elettori passò al 6,9%, circa il 25% dei maschi che avevano diritto di voto, ma continuarono a rimanerne privi i contadini e gli operai, che, soprattutto al Sud, erano facilmente controllabili da notabili locali e da altri poteri manipolanti. Ne risultava un Parlamento obbligato da una parte a confrontarsi con le pretese della Corte e, dall’altra, senza radici nella cittadinanza: dall’incrocio di questi due elementi scaturiva una vita parlamentare poco lineare, esposta a molti condizionamenti esterni e senza riferimenti ideologici, anche perché la conclusione del Risorgimento aveva lasciato in eredità problemi sì molto complessi, ma dinanzi ai quali un elettorato elitario com’era quello italiano di allora non poteva esprimere soluzioni molto diverse fra di loro. Da tutto questo derivò il trasformismo (il termine fu usato per la prima volta il 19 maggio 1883 nella discussione parlamentare sul quinto governo Depretis), ossia il tentativo di dare maggiore forza all’esecutivo attraverso la costituzione di una maggioranza centrista in cui confluivano elementi di varia provenienza. Il metodo di Depretis non era in fondo molto diverso da quello seguito da Cavour quando, nel 1852, aveva dato vita al “connubio” con il centro-sinistro di Rattazzi, ma il nuovo trasformismo non andò al di là di una navigazione di piccolo cabotaggio, utile a sopravvivere ma non a governare e ad affrontare i tanti problemi del Paese. Da qui il discredito sull’azione dei vari governi, accentuato dalla facile ed appariscente acredine di un mondo intellettuale, e soprattutto letterario. Se l’analisi storica del fenomeno può dirsi abbastanza esaustiva e convincente, più inquietante è la domanda relativa al nostro presente: perché ancora oggi le pratiche trasformistiche sono così frequenti, con sconcerto e turbamento di un’opinione pubblica forse poco interessata alla morale, ma severa nel moralismo? Anche in questo caso ci aiuta la storia della nostra Repubblica, con riferimento particolare al momento costituente. La Costituzione diede proprio al Parlamento il ruolo centrale nella vita del nuovo Stato, facendolo, però, non già organo di controllo dell’esecutivo, ma luogo stesso in cui si creano gli equilibri di governo. Se il fascismo aveva svalutato e dileggiato il Parlamento  la Costituzione ne esaltò la funzione, ma nello stesso momento ridusse di molto l’autonomia e l’efficacia dell’esecutivo, aprendo la strada ad un potere frazionato in mille rivoli.  Una democrazia, dunque, poco decidente, poco incisiva sulle situazioni reali che interessavano ed interessano i cittadini e perciò esposta alla disaffezione e alla critica corrosiva. Il tutto amplificato da un sistema elettorale fondato sulla proporzionale pura, capace di funzionare finché la situazione internazionale ha prodotto uno scenario con attori immutabili nei loro ruoli, ma messo in crisi irreversibile dalla fine delle convenzioni ad excludendum.

 

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